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Agroalimentare italiano, la sfida della globalizzazione

Giulio Mela AgriFood

Il commercio internazionale: minaccia o salvezza per l’agroalimentare italiano?

Negli ultimi venti anni, alcuni degli effetti più evidenti della globalizzazione sono stati l’aumento esponenziale del commercio internazionale e il forte cambiamento della struttura degli scambi. Nel periodo 2000-2014, il commercio internazionale è cresciuto mediamente dell’8,8% annuo (9,0% nel caso dei prodotti agroalimentari, Fonte: WTO), più del Pil mondiale (6,4% all’anno) con una crescente partecipazione dei paesi emergenti (Cina, India, Medio Oriente e repubbliche ex sovietiche), sia come mercati di sbocco che di origine.
Sebbene questi cambiamenti abbiano aumentato la presenza di prodotti esteri sui mercati italiani a vantaggio dei consumatori, ma a scapito dei produttori e dei lavoratori dei settore più esposti alla concorrenza estera, l’aumento degli scambi può rappresentare una grande occasione di sviluppo anche per i produttori italiani, soprattutto quelli del settore agroalimentare.

“è paradossale che i prodotti italiani, quelli autentici, non riescano a sfruttare appieno questo potenziale a causa della conflittualità all’interno delle filiere” Giulio Mela

Analisi della domanda interna del settore agroalimentare italiano

Le potenzialità del commercio internazionale per l’Italia non possono essere comprese appieno senza un’analisi della domanda interna relativa al settore agroalimentare. Nel nostro paese, come in tutte le economie avanzate la domanda di beni alimentari è matura (vale a dire stabile) sia perché ormai la grande maggioranza degli italiani ha soddisfatto i bisogni primari (nutrizione), sia perché il nostro paese è a crescita demografica pressoché nulla. La crisi economica degli ultimi anni ha inoltre costretto le famiglie – soprattutto quelle del ceto medio-basso e delle regioni meno ricche – a riconfigurare il proprio paniere alimentare sostituendo prodotti più costosi come carne di manzo e pesce fresco con pasta, pollo e uova. In altre parole, l’Italia è un paese che più di tanto non può consumare, sia perché invecchia, sia perché vive un periodo, iniziato oltre venti anni fa, di bassa crescita economica.
Dal lato dell’offerta agroalimentare, l’Italia è un Paese caratterizzato da una grande quantità di produzioni tipiche spesso facenti capo a realtà aziendali medio-piccole, contraddistinte da costi di produzione mediamente più elevati di quelli di molti altri paesi. Per questo motivo i prodotti agroalimentari italiani di qualità devono riuscire a spuntare un prezzo di vendita più alto rispetto a quello dei prodotti “convenzionali” se vogliono essere sostenibili dal punto di vista economico. Nel nostro Paese è sempre più difficile che ciò avvenga: sia per la polverizzazione dell’offerta che per la domanda ormai matura.

L’agroalimentare italiano all’estero e l’italian sounding

All’estero, al contrario, i prodotti tipici italiani, possono essere considerati in molti casi come prodotti “nuovi” e quindi con un grande potenziale di diffusione, soprattutto nei Paesi emergenti dove fasce sempre più ampie della popolazione – potendo ora disporre di redditi medio-elevati – vogliono consumare prodotti agroalimentari di qualità, anche italiani. L’appeal del Made in Italy è notevole: il Ministero dello Sviluppo Economico stima che i prodotti Italian sounding (ovverosia prodotti, spesso mediocri e non riconducibili alla tradizione italiana, per la cui commercializzazione vengono impiegati immagini, testi e nomi che evocano l’Italia) abbiano un giro di affari annuo di 54 miliardi di euro, cifra paragonabile al valore delle esportazioni italiane di prodotti agroalimentari.
Nonostante la progressiva perdita di competitività dell’Italia, negli ultimi anni il settore agroalimentare è quello che ha fatto registrare le performance migliori sui mercati esteri ed è risultato uno dei maggiori contributori al miglioramento della bilancia commerciale italiana, che proprio in questi anni di crisi è tornata positiva. I margini di miglioramento, come mostrano i dati sull’Italian Sounding sono tuttavia molto ampi a patto che le amministrazioni pubbliche, nazionali e regionali, decidano di puntare sulla tutela dei nostri prodotti sui mercati extra-europei e sulla promozione del “marchio Italia” in maniera più decisa e coordinata di quanto fatto finora: cioè tramite agenzie regionali più interessate a promuovere singoli territori, poco riconoscibili dagli stranieri, piuttosto che l’Italia e le sue eccellenze alimentari nel suo complesso.

Il paradosso dei prodotti agroalimentari italiani

Sebbene le responsabilità del settore pubblico siano rilevanti, anche gli imprenditori possono fare molto per migliorare le performance italiane sui mercati mondiali e allargare il proprio volume d’affari. La penetrazione in mercati contraddistinti da elevata concorrenza (paesi europei, Stati Uniti e Giappone) o in mercati emergenti dove i prodotti tipici italiani sono ancora poco presenti è possibile solo tramite strutture consortili o distrettuali capaci di formare quella “massa critica”, sia in termini quantitativi che di uniformità qualitativa, fondamentale per soddisfare la domanda della grande distribuzione e per sostenere i rilevanti costi di analisi di mercato, marketing e commercializzazione.
L’Italia e il suo stile di vita piacciono molto all’estero ed è paradossale che i prodotti italiani, quelli autentici, non riescano a sfruttare appieno questo potenziale a causa della conflittualità all’interno delle filiere: è necessario superare le vecchie ruggini e i preconcetti per entrare a tutti gli effetti nel XXI° secolo e vincere la sfida postaci dalla globalizzazione nel settore agroalimentare.

Giulio Mela, Ricercatore presso CrefisGiulio Mela - Ricercatore presso Crefis